Articoli su Giovanni Papini

2019


Raffaele Panico

Giovanni Papini contro Benedetto Croce

Pubblicato in: Consul Press.
Data: 21 marzo 2019




Benedetto Croce a Fiume l’italianissima dal movimento futurista veniva celebrato come il “morto”! Ovvero, a Fiume città della “Costituzione della Reggenza del Carnaro” frutto della stesura dell’anarco-sindacalista Alceste De Ambris, in sedici mesi di Rivoluzione italiana, grazie alle convergenze di socialisti, nazionalisti, anarchici, “cani sciolti”, avventurieri e frickettoni ante litteram, accorsi nella città liberata, si anticipa di ben quarant’anni il ’68: con il culto della trasgressione, i centri Yoga, i manifesti murali, le droghe, il sesso libero, il teatro e la festa continua ecc. ecc. Nel golfo del Carnaro tra il 12 settembre 1918 e il dicembre 1920, tra i vari eventi, si celebravano dei cortei Futuristi contro la filosofia, con la figurazione della “Morte di Croce”: trasportavano il busto del filosofo in giro per la città, evocandolo come il passato da sbeffeggiare, schiaffeggiare irridere per porre le basi della più grande e bella Patria, la nuova Italia di Vittorio Veneto. Era l’idea dell’antifilosofia di Giovanni Papini. Fiume, poi passata allo status di Città Libera, poi annessa al Regno d’Italia nel 1924. Ed è ancora la città del golfo che Dante, nella Divina Commedia, pone a ‘termine dei confini geografici d’Italia’.

Che storia! E pensare che solo poco più di un quarto di secolo dopo Benedetto Croce scriverà, in una lettera ad un amico, prima delle elezioni dell’aprile 1948, “siamo messi male, l’Italia è nelle mani della peggiore pretaglia e dei comunisti servi dello straniero”: Croce deriso a Fiume è nella mesta Italia post bellica campione dell’Italianità…

Torniamo alle serate Futuriste. Il 21 febbraio del 1913 Giovanni Papini ha già aderito al movimento Futurista. Al teatro Costanzi, oggi Teatro dell’Opera, pronuncia un discorso destinato a fare storia. Pubblicano nella sua rivista, “Lacerba“, edita a Firenze, il periodico del Movimento Futurista, esce col titolo: “Contro Roma e contro Benedetto Croce“, leggiamo alcuni brani. Papini si presenta: “Nel terzo numero di questo giornale io pubblicai un articolo sul Futurismo in cui dissi con la maggiore schiettezza possibile quel che ne pensavo in bene e in male. In seguito a quel mio scritto Marinetti m’invitò a fare un discorso a Roma su quell’argomento che più mi fosse piaciuto. Io accettai volentieri e per la simpatia che ho sempre avuto per i movimenti rivoluzionari e per la speranza di poter ridire a nuova gente alcuni miei favoriti pensieri. Infatti il mio discorso si compone di tre parti: una contro Roma (riprendendo scritti miei del “Leonardo” e della “Voce” degli anni 1905 e 1908) – la seconda contro i cristianucci (Cfr: Resto del Carlino del 1910 e la “Voce” del gennaio 1913) – e la terza contro Benedetto Croce (che io ho regolarmente combattuto dal 1904 fino al presente giorno). E continua così la prima parte: “Roma è il simbolo maggiore di quel passatismo storico, letterario e politico che ha sempre adulterato la vita più originale d’Italia”. […] “Roma è stata grande colle armi e coll’amministrazione e mai colle arti e col pensiero. E’ stata una bella e ricca città ma sempre a spese dei vicini e dei lontani”. […] “Quale è il grande artista, il grande poeta che qui, sia nato e fiorito? Io non trovo, cercando bene, che il dolce Metastasio, lo spiritoso Belli, il sonante Cossa – tutta gente di second’ordine, e tutti e tre, meno il secondo, più letterati che poeti”. […] “Chi mi darà torto se dichiaro che Roma è stata sempre, spiritualmente parlando, una mantenuta? Questa città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la peste dell’archelogismo cronico, è il simbolo pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova e originale“.

Dopo la parte seconda, sulla religione e la filosofia, arrivano le parole di fuoco contro Benedetto Croce. “Il caporione di questo filosofismo è quel Benedetto Croce il quale s’è fatto un gran nome in Italia, tra gli studenti, i professori di scuole medie e i giornalisti delle classi medie, prima come erudito eppoi come abile restauratore dell’hegelismo berlinese e napoletano. Questo padreterno milionario, senatore per censo, grand’uomo per volontà propria e per grazia della generale pecoraggine ed asinaggine, ha sentito il bisogno di dare all’Italia un sistema, una filosofia, una disciplina, una critica. Questo insigne maestro di color che non sanno… “

In conclusione la profezia: “E’ tempo che si alzi l’uomo solo, l’uomo che sa camminare da sè, l’uomo che non ha bisogno di promesse e di conforti – e si levi di torno tutti i sagrestani dei diversi assoluti” […] “Il dovere dell’uomo è quello di allargare, elevare, di arricchire, di migliorare quest’io che è la nostra sola ricchezza e la nostra sola speranza. Noi dovremmo tutti diventare più intelligenti, più sensibili, più personali – cioè, in una parola, più geniali. Ma per noila massima manifestazione del genio è l’arte e perciò desideriamo soprattutto che vivano e vincano nel mondo artisti e poeti. Ma una mentalità, quale l’abbiamo descritta, è l’antitesi più cruda di questa aspirazione. Essa valuta più il cittadino che l’individuo; più l’impiegato che il vagabondo; più il ragionatore che il lirico; più l’obbediente che il ribelle; più l’erudito che il creatore; più il tradizionale che il novatore. Essa affoga l’io nel tutto; l’individuo nella società; il capriccioso nella mediocrità; lo spirito libero nell’uniformità della legge universale“. […] “Noi vogliamo invece preparare in Italia l’avvento di quest’uomo nuovo il quale non abbia bisogno di grucce e di consolazioni, che non si spaventi del nulla e dei cieli vuoti; che aspiri alla creazione e non alla ripetizione, alla novità e non all’archeologia, alla poesia libera e pazza invece che alla polverosa pedanteria dei condensatori di vuoto. […] Un uomo che dalla tragica disperazione di questa solitudine sappia trarre tanta forza da vincere coll’arte il doloro della sua anima e colla libertà la piccolezza dei suoi prossimi”. […] “La cultura italiana è tremendamente decrepita e professorale; bisogna uscire da questo mare morto della contemplazione, adorazione e imitazione del passato se non vogliamo diventare davvero il popolo più imbecille del mondo”.

Una premessa anticrociana. Futurismo contro passatismo di inizio secolo; Futurologia contro archeologia alla fine del secolo. L’attacco contro Croce, in chiave futurista contro il passatismo, era già apparso su il “Leonardo” nel 1907 (“Leonardo, Rivista d’idee”, aprile-giugno anno V, n° 2, pagine 226 e 227) quando egli ci dimostra il filosofo inadatto a una visione della storia dell’uomo più alta e degna delle sorti e dell’agire consapevole delle scelte umane, anticipando (proprio in quanto Futurista) le necessarie previsioni di tecnologie e scienza di fine XX secolo, capace di generare mutamenti prima impensabili. L’articolo, “Croce e la previsione”: vi scrive infatti Papini: “Benedetto Croce, nell’ultimo numero della «Critica», parlando di un libro positivista sopra la Previsione nei fatti sociali s’è chiesto cos’è la previsione, senza pensare che questo concetto è così elementare per la mente umana (“l’uomo è un animale futurologico”, è un concetto di Antimo Negri del 1978 in un saggio poco noto, “Futurologia scienza della speranza”, l’Uomo cioè che non può vivere senza la visione del domani, dell’avvenire ecc., uomo in quanto animale consapevole delle sue scelte, del fare e del costruire la Storia e, quindi, del suo impatto nell’ambiente naturale e sociale, Ndr) che non è possibile darne una definizione soddisfacente”. E continua: “La risposta che egli ha dato alla sua domanda è, infatti, negativa. «Ciò che noi chiamiamo prevedere – egli dice – non è altro che un modo immaginoso ed enfatico per esprimere non già il futuro di cui non sappiamo e non possiamo saper nulla e che non è materia di conoscenza, ma il presente: non è dunque un pre-vedere ma un vedere»“. Sentiamo Papini come risponde alla contesa letteraria sul futuro come necessità vitale dell’Uomo: “Un modo molto sbrigativo, come si vede, di risolvere la questione, non volendo trovare nel prevedere che il vedere e facendo del pre, ch’è l’essenziale, un semplice suffisso rettorico. Ma non c’è modo di buttare via la frase del Croce: basta semplicemente rovesciarla per trasformare in verità una banale boutade prodotta da malumore antipragmatista. Infatti noi potremmo affermare benissimo che vedere non è che un modo più spiccio e superficiale del prevedere; che il presente non è materia di conoscenza perché su di esso, essendo presente, immediato e sentito, non c’è nulla da dire; che vedere e conoscere un oggetto significa prevedere quali sarebbero certi suoi effetti se noi facessimo o no certi atti; che perfino nella percezione più elementare ci sono dei fatti di previsione e molte altre cose di questo genere che sono il risultato di una lunga serie di osservazioni e di analisi che ha prodotto, tra l’altre, la Teoria della Visione di Berkeley. E conclude: Il Croce attribuirà tutte queste analisi al più gretto empirismo e tornerà ai suoi universali che sono al di là del tempo e dello spazio. […] Ma i filosofi sono ingrati e non hanno nessun rispetto per le cose che servono a qualcosa. Essi sono, nello stesso tempo, al di là del senso comune e della riconoscenza”.


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